Carla Lonzi e il contrabbando della Moda
La moda non è voluttà manifesta, non è dissolutezza tollerata, ma contrabbando della sconvenienza, autorizzato come decenza. (Søren Kierkegaard)
Carla Lonzi nasce a Firenze il 6 marzo 1931 sotto il segno dei Pesci. Dimostra da subito uno spirito eterodosso e anticonvenzionalista e nell’estate del 1940, all’età di nove anni, decide autonomamente di trascorrere, con integra dignità, tre anni in collegio. Il padre sarà costretto a presentarsi ai cancelli dell’Istituto di Badia a Ripoli per riportarla a casa, a Radda in Chianti. Dalla fine del 1943 fino agli inizi del 1950 torna quindi a vivere con la sua famiglia e i suoi fratelli, di cui lei è la sorella maggiore: Lidia, Marta, Vittorio e Alfredo.
La sua autenticità e la sua autocoscienza femminista la renderanno una delle voci intellettuali più sovversive, radicali e turbolente del secolo scorso. Tra le sue attività di critica d’arte, attivista e saggista, però, non manca la rivelazione della sua cultura del vestiario e del piacere di trascorrere del tempo con la madre acquistando, come le chiama lei, delle “stupidaggini”.
Affascinata dall’immagine di una donna divenuta simbolo del femminismo della seconda ondata, ho chiesto a Sara Bruciamonti di indagare il rapporto tra moda, abbigliamento e dottrine femministe. Tra le diverse letture, a partire dal diario Taci, anzi parla. Diario di una femminista che Carla Lonzi ha tenuto dal 1972 al 1977 fino agli scritti del filosofo e saggista francese Jean Baudrillard, Sara ci riporta con estrema accuratezza una libertà nella ricerca attenta della moda come linguaggio che esula dal male.
Sara Bruciamonti è laureata in storia della filosofia medievale all’Università Statale di Milano e, nonostante i nostri percorsi accademici siano stati totalmente differenti, ad unirci, oltre all’amicizia e alla stima reciproca, ci sono sicuramente Roland Barthes e Vivienne Westwood. Anche FUORI MODA, infatti, nasce dal pensiero che lo stesso Barthes ha trascritto nel suo testo Il senso della moda. Forme e significati dell’abbigliamento, ed è proprio di forme che si svuotano per trasformare le nostre anime che questo articolo vuole trattare.
Prima di immergervi nella lettura di questo episodio, vi invito a ritagliarvi il giusto tempo e la giusta attenzione per comprendere e apprezzare appieno il ritratto di una personalità tanto complessa quanto esilarante come quella di Carla Lonzi.
Rinfocolando l’entusiasta questione sui rapporti tra moda, emancipazione femminile e femminismo, inevitabilmente si apre la stordente risposta della moderna società industriale che vede la donna come termine ambiguo, inferiorizzata a tutti i livelli ma pur sempre soggetto di una marcata sovraesposizione estetica. Lungi dall’essere il mero riflesso dell’investitura di casta, l’incarnato posticcio del segno obbligato, ella «appartiene a quel fantasma, prodotto dai rapporti innaturali della riflessione femminile con la riflessione femminile: la moda».1
Ciò significa ad un tempo fuga dai circuiti di senso, dalla decenza orchestrata delle eterne leggi naturali, e deriva emancipata nell’ambito dei rapporti mutevoli che minano la produzione di idealità. Perciò la censura morale che da circa mezzo secolo riduce la moda a concausa di una paralisi della donna nei modelli consumistici e, più tradizionalmente, ad una degenerazione dell’essere in apparire, non riguarda lo scatenamento del desiderio erotico, della cui assenza anzi inizia nostalgicamente a lamentarsi, quanto l’altrettanto imprescindibile passione dell’artificiale quale minaccia gravosa al sapere, pericolosa estensione del valore al di là dell’utile, trasformazione dell’isolamento atomistico in un generalizzato contagio della simulazione, ove l’alterazione non rispetta nulla né della generosa perdita senza contropartita né dell’autentica appropriazione di sé.2
Non ingenuamente Kierkegaard accorda alla figura del modista il ruolo di sacerdote che forma le adepte nel luogo sacrificale, la sua boutique, mediante il trascendimento della mera acquisizione monetaria: reinvestendo in pubblicità fino alla perdita, dunque relegando la donna alla contemplazione, il mercante di moda vince il giuoco contro l’incostanza del non senso. Mentre lo spettro della moda moltiplica l’interrogativo sulla fedeltà all’immagine, allenta il possesso dell’identità conclusa nella garanzia del glamour, di una grammatica vigile.
Fronteggiando il tormento della sospensione dell’enigma del chi, in cui la cultura indugia col prevedibile ed irresolubile protagonismo dell’io, soggetto dell’autoreferenziale riflessione maschile, Carla Lonzi rilancia la sfida nei termini dell’emersione di una nuova coscienza come «scorporamento accurato di sé dal contesto».3
Voce anomala di Rivolta Femminile ed esule volontaria dal mondo dell’arte, viene sospinta dalla passione del fuori fino all’esperienza di un’autenticità atta a riverberare sul destino delle donne a venire. Se lo svuotamento trasformativo la conduce comprensibilmente alla prossimità con Teresa d’Avila o con l’omonima mistica di Lisieux, meno permeabile è la relazione con quella sfera d’inversioni in cui «trasformando il proprio indumento, si trasforma la propria anima».4
La scrittura del Diario raccoglie e decodifica le tappe di un percorso di risonanza intrecciato con le identità simulate, maschere d’avanguardia e di contrabbando sociale.
Tranquillamente a disagio in ogni ambiente predefinito, da giovanissima Lonzi sceglie la via del collegio: la solitudine e il contesto non ipotecato dalla necessità del legame famigliare confluiscono nelle pratiche di ‘ornamentazione dell’anima’. Il vestiario incontra l’interdetto morale, non riesce a permeare un reale che rifiuta l’insorgere della vacuità, il trapasso di modelli indefinitamente convertibili. È la divisa alla marinara, espressione dell’uniformità all’ordinamento religioso, ad accompagnare la mai sopita aspirazione alla santità e l’elaborazione di forme primigenie di autocoscienza femminile. Solamente il rientro forzoso della tredicenne in famiglia per volontà del padre vede schiudersi la necessità di farsi altro e di apparire secondo «l’aspetto magico della merce».
Alle prese con una madre soggetta a decisioni eteronome, ne eredita l’atteggiamento nevrotico nei negozi, ove spesso imperversa la matrice sacrificale protesa alla rinuncia, e la difficoltà, nell’ambito dei circuiti donativi, di offrire all’altro la possibilità di ricambiare. La ricerca di riconoscimento al di fuori del ruolo di primogenita, frustrata nella comunicazione intima, trova uno spiraglio artificiale nel codice vestimentario, liquidazione della socialità mediata dal protagonismo delle norme a prezzo dell’adulazione permanente per la pura arbitrarietà.
Non ho più l’oppressione dalla città, ho superato l’astio che mi provocava, mi accorgo quanto è bella e come è conveniente comprarci qualcosa: guanti, scarpe, pullover. Al ritorno avevo questo diversivo degli acquisti da spartire con mia madre. Mi vede fare la stessa cosa che fa lei: andare in centro, scoprire qualche stupidaggine nei negozi, e il buon umore al ritorno.5
Qui la moda fa saltare il banco della negatività, si accorda col bon ton e rifugge l’infrazione: si trafugano paltò e cappelli in un mondo che pone la sua salvaguardia nei termini del ‘bello’ e del ‘sempre utile’, ogni scelta trova la sua giustificazione positiva nell’economia dell’innocenza mentre il dispendio retroagisce nel suo proprio mascheramento.
Non viene lanciata alcuna sfida al Verbo paterno; delegando lo spreco alla contabilità dei padri, la moda diviene «il linguaggio di una madre che preserva la figlia da ogni contatto col male».6
Di questa femminilità esaltata nella cura del vestiario, ostaggio transigente dell’inglobante totalità astratta, Lonzi rifiuta l’assurdità ricercando una via «sorretta da nulla». Come rivestire il corpo di segni indigesti alla farsa del buon gusto? Come liberarlo dall’assillo fagocitante della moda materna?
Nel 1974 Juliet Mitchell pubblica Psicoanalisi e femminismo, l’undici novembre dello stesso anno Lonzi inveisce contro la cultura femminile, femminismo contraffatto per tramite dell’infusione di prodotti culturali maschili - «Tutto falsificato, e ora diffuso, propagandato, riposto in sacchetti verdi chic nel gusto Fiorucci con la scritta Edition des femmes!». 7
Sempre Fiorucci, uno dei primi marchi italiani a rispondere alle esigenze identitarie della sottorappresentata classe giovanile coi noti jeans in tessuto denim stretch, calzature in plastica, colori accesi e stampe pop, viene citato plurime volte nel Diario configurandosi in momenti differenti, dalla tappa presso cui compra «due cose strampalate», finanche «orribili» e motivo di ostinata irritazione, alla significativa alternativa tra immagini femminili incongruenti col suo essere, «o fa troppo signora o troppo Fiorucci». 8
Nella transizione dall’opposizione tra vestiario maschile e femminile alla difesa della moda junior contro la caducità, ove domina la lotta tra l’androgino come superamento della visione dualista e la figura angelica come affermazione di un monismo desessualizzato, s’insinua lo sdoppiamento di una liberazione simulata.9
Lonzi sembra avvedersi dal pericolo della ‘fregatura emancipazionalista’ in cui la moda nega l’insurrezione contro il regno delle forme precostituite per assestarsi nel loro riciclaggio inoffensivo, rifiuta di entrare in contraddizione con sé stessa, dunque di rivelare il referente che accompagna ogni creazione sistematica.
Se i movimenti hippies avevano lasciato intaccato il modello sessuale maschile sotto la formula dell’amore libero, l’irruzione erotica del corpo della donna, nel vestiario e nella sfera pubblica coadiuvati dal mercato, viene scongiurata mediante l’equivalente fallico dando vita ad uno spettacolo di pura autoreferenzialità. È il caso della diva impermeabile alla vecchiaia che, spogliata persino di qualunque indice di chirurgia plastica, «parla senza muovere un muscolo», salvo poi rivelare in controluce il decadimento del volto sigillato.
La ‘pelle delle cose’ si ripiega in un soliloquio inaccessibile, viene attraversata dallo spettro della rimozione: fluttuazione e produzione dei corpi all’insegna di una tensione tra affrancamento da una femminilità castrante ed acquisizione d’identità negoziabili, perciò il rapporto con la moda si fa intermittente, condensandosi non di rado nell’onirico. 10
Sono con Vanda [Elvira Banotti] davanti a uno specchio. Lei si sta provando una camicia da notte trasparente marrone a fiorellini in vista dell’incontro con un tale, e io scorgo sotto un grosso apparato genitale maschile. Non so cosa pensare, ho confusione sul sesso in quel momento, ma cerco di restare naturale con lei. Le consiglio un’altra camicia delle sue e ci tengo a farle vedere che ricordo i colori: bianco, arancio... 11
Dall’emblematico nude look portato in scena da Yves Saint Laurent nel fatidico 1968, con tanto di evidenti assenze e velature in cigaline con cui la neonata gioventù riceve la sua investitura nell’alta moda, all’espressione artefatta dell’artista emancipata, che esibisce «una faccia come quella fotografia sul catalogo», s’instaura un regime di trasparenze. Taci, anzi parla. Diario di una femminista si apre facendo appello ad un processo di scoprimento, meccanismo trasparente che tiene in scacco il ‘soggetto imprevisto’ di fronte alle sue rappresentazioni ingannevoli senza possibilità di riappropriarsene, infrangendo la sua stessa riflessione.
Il tentativo d’instaurare uno scambio autentico in cui si fronteggi il mito maschile, la messa in discussione di ogni «propiziazione masochista in forma di tecniche femminili di seduzione del persecutore», tendenza oblativa ed obliante che riverbera negli stessi rapporti tra donne, intercetta ricorrenti eccessi ludici di trasparenze alla moda. I dubbi sulla teoria clitoridea insinuati dall’esperienza saffica e inaspettatamente vaginale di una femminista portano al sopraggiungere di un’altra camicia da notte trasparente, questa volta indossata da Carla Lonzi: l’evidenza del sotto accompagna un sogno di scambi seduttivi con uomini implicanti l’intromissione di una provocante esibizionista che, infine, si scaglia sul letto con una terza giovane di contro all’immutabile sentenza dell’esclusa - «stronza!».
Il desiderio di uno stile spiritoso si fa poi preminente di fronte agli effetti dinamici innestati dal gioco di trasparenze della camicetta e dalle tre balze colorate del vestito di Lidia Lonzi, mentre uno specchio riflette un sé intristito in sgradevoli colori pastello.
Col suo duplice senso di visibilità emancipata e di maschera psicologica, il velato o incontra il rigetto nell’autocoscienza di un’altra o, quando indossato dalla sorella-rivale, conduce all’esilio del fuori moda. La permanenza in una socialità virulenta, inevitabilmente percossa da spinte contrastanti, urta l’aspirazione all’integrità della sua ‘piccola verità’ - «Non posso sopportare la polvere degli altri che si accumula sopra il mio cristallo trasparente. Non so più vedere attraverso e resto confusa». 12
Nel 1970 Carla Lonzi abbandona il ruolo di critica d’arte rifiutando il surrogato dell’identità sociale e la relativa immunità di veggente, come se anticipando il divenire corpo dell’opera il critico potesse salvaguardarsi dall’immanenza relazionale coinvolta nella produzione, dalla vertiginosa discesa lungo la catena dell’essere. Sono gli anni dell’impegno nei rapporti in formazione del gruppo Rivolta Femminile e nei relativi scritti, ove riaffiora quella trasformazione dal lavoratore al consumatore d’immagini e di spettacolo profetizzata dai situazionisti, ora però interamente attraversata e messa in guardia dall’asimmetria dei sessi.
La creatività maschile ha come interlocutore un’altra creatività maschile, ma come cliente e spettatrice di questa operazione mantiene la donna il cui stato esclude la competitività. [...] Mentre si riconosce alla creatività una funzione liberatoria, si istituzionalizza l’arte e con essa una controparte neutrale che assiste ai gesti degli altri. 13
La donna viene spossessata del gesto creativo per irreggimentare la sua presenza come forza-spettacolo, funzionale alla mitizzazione di una liberazione a lei estranea. Se la gestualità femminile è modulata secondo la grazia somministrabile dell’arte, sottrarsi ai momenti celebrativi della creatività maschile diviene un modo per incrinare la forma contemplativa quale ultima incarnazione concessa alla sua specie.
Non resta alla donna che «porre la sua trascendenza». Dunque ritrarsi dalla clausura endogamica e dai privilegi istituzionali, da ogni insieme ritenente della coscienza che legittima la rimozione dell’alterità, per fuoriuscire dalla propria intima solitudine come «coscienza di relazione che scorre tra persone». 14
L’Internazionale Situazionista si era epurata da tempo di alcuni suoi componenti contestando l’egemonia del ruolo d’artista: nel giugno 1960 era stato il turno di Pinot Gallizio, nello stesso mese l’allora ventinovenne Carla Lonzi allestiva la sua prima mostra dedicata alla pittura industriale dell’ex-farmacista albigese, “La Gibigianna”.
Quasi fosse inizialmente un passaggio di testimone - «Io ero il sostituto di Jorn, ma in vesti femminili», dopo la prematura morte dell’uomo di Alba e la fine dell’esperienza situazionista sotto i colpi di ciechi adulatori, l’attivista intensifica la caduta del mito dell’arte a partire dall’autocoscienza in rivolta. Il rifiuto del discepolato che sorregge la summa compiaciuta di tutti i sistemi viene condotto spogliando il protagonista dell’arte dell’habitus ricattatorio, motivo di scontro con le artiste femministe e infine di rottura con il compagno scultore, Pietro Consagra - «Io gli dicevo che l’artista fa l’opera perché non crede all’autenticità dei rapporti umani». È sul fronte del lato negativo del processo o, come voleva l’incipit del folgorante manifesto antihegeliano, del passato oscuro del mondo che si gioca la partita compromessa col mondo dell’arte e quella ancora presente affettivamente, furtivamente pervasa dallo stile insurrezionale, con la moda.
Andando a scegliere dei gioielli con Simone [P. Consagra] ero nervosa ... avevo timore di essere costretta ad acquistare qualche oggetto alienante. Siccome il cognato del gioielliere è uno scultore famoso e c’erano anche pezzi suoi, Simone mi ha consigliato di prenderne uno per gentilezza. Ma siccome quello scultore mi è antipatico e le sue cose mi sembrano cafone, ho detto no. Anche a me piace essere gentile, però non ce la faccio a recitare la commedia, neppure se è scontata e nessuno pretende che io sia sincera. Il gioielliere era pieno di vivacità nel descrivere i suoi oggetti, alla fine ero allegra e me ne provavo qualcuno davanti allo specchio.15
Analoghe riserve vengono espresse per l’alta sartoria ad opera di un amico di Consagra: indossare ‘vestiti per ricchi’ altera pericolosamente l’attrazione del simile col simile, ove la prossimità è rivolta proprio a «chi non porta quei vestiti».16
Si potrebbe dedurre una radicale messa in discussione della forma codificata quando precipita nel riflesso pacificato della struttura societaria, una sua valorizzazione quando rivela la misura in divenire dell’apertura trasformativa. La trasparenza dell’abito diviene allora mancata risonanza dell’espressione del farsi altro, custodia indifferente del corpo rimosso, mentre il prestigio dei manufatti e la loro equivoca vestibilità alzano le barricate dei prezzi inaccessibili contro cui si erge l’immagine abdicante dell’io surclassato.
Tali nodi conflittuali affiorano come testimonianza di un’autentica realtà relazionale, di una pratica di disarmo che giunge, in ultimo, a disfare con minuzia la trama della vita di coppia liberando l’essere a due alla rottura del compromesso monadico, all’esito ascendente delle forze dialoganti: l’abbandono della relazione a motivo della relazione stessa - «Perché si fa tutto sulla mia pelle, son tutti giochi che avvengono sulla mia pelle».17
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Søren Kierkegaard, In vino veritas (1845), Laterza, Bari 2001, p.84.
Cfr. Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte (1976), Feltrinelli, Milano 2015, pp. 108-112.
Ivi Baudrillard tende a insistere sulla facciata puritana e idealista della condanna, ad oggi desueta, laddove nel successivo Della seduzione pone come elemento su cui poggia la furia iconoclasta il mito moderno del desiderio. È a questo secondo aspetto, declinato nella forma di un desiderio dell’io preventivamente anestetizzato dalle immagini di moda, che si possono ascrivere le attuali lamentazioni psicologiste.
Carla Lonzi, Vai pure. Dialogo con Pietro Consagra, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1980, p.55.
Cit. in Roland Barthes, Sistema della moda (1967), Mimesis, Milano 2024, p.252.
Carla Lonzi, Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta femminile, Milano 1979, 7 novembre 1972.
Roland Barthes, op. cit., p.294.
Carla Lonzi, Taci, anzi parla, cit., 11 novembre 1974.
Ivi, 4 settembre 1977.
Cfr. Roland Barthes, op. cit., pp. 290-291. Tenendo presente che, come nota nella postfazione Terracciano, «Barthes, pur trattando di differenze e opposizioni binomiali, afferma che non è corretto includere la moda in un’ottica binaria».
Cfr. Jean Baudrillard, op. cit., p.120.
Carla Lonzi, Taci, anzi parla, cit., 13 marzo 1973.
Ivi, 12 dicembre 1973.
Rivolta femminile, Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile (1971) cit. in Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, La Tartaruga, Milano 2023, p.63.
Carla Lonzi, Vai pure, cit., p. 14.
Carla Lonzi, Taci, anzi parla, cit., 27 marzo 1973.
Ivi, 4 febbraio 1973.
Carla Lonzi, Vai pure, cit., p.120.